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Dall’omologazione sociale all’appiattimento culturale: una questione linguistica

Se parli di una cosa, se gli dai un nome, automaticamente quella cosa prende vita, esiste. Del dare un nome parla anche il racconto biblico, quando Dio sottopone ad Adamo tutte le creature affinché questi le nomini. Certo, un nome non cambia la sostanza delle cose – una rosa, dice Shakespeare, non profumerebbe di meno se avesse un altro nome – ed è quindi poco più che una convenzione linguistica, ma esso ha la capacità di togliere dal mucchio la cosa, di separarla nettamente dalle altre e renderla riconoscibile. Dare un nome equivale insomma a esercitare un potere. Il racconto biblico attribuisce questa prerogativa al primo uomo che, conferendo nomi alle creature, le addomestica proprio in virtù del potere di chiamarle.


L’uomo comune, però, ha evidentemente perso questa prerogativa adamitica. L’uomo comune i nomi per le cose non li conia, li riceve. Li accetta. Diciamo pure li subisce. Oggi ci sono infatti individui appositamente preposti a coniare nomi al posto suo. Sono, ad esempio, nel mondo della pubblicità. O dei media in generale. Con una differenza: se nella pubblicità il naming fa parte dell’attività del copywriter, nei media non si sa bene come nasca, ma l’effetto è che a un certo punto tutti usano una stessa parola per designare un qualcosa, anche se nessuno sa chi ha dato l’avvio.


È accaduto anche in questi ultimi tre mesi. E non parlo tanto di anglicismi che hanno comunque spesso il pregio di essere almeno originari, quanto di quella terminologia che in questo periodo è entrata nel nostro uso corrente e che viene utilizzata senza essere posta in discussione. Anzi, è proprio utilizzandola che non la poniamo in discussione. Accettando di adoperarla, di fatto la legittimiamo. È come se appunto pronunciandone il suono, magicamente la cosa, che quella parola designa, prendesse a esistere. E se esiste, vuol dire che va accettata. Diventa necessaria.


Non sono poche ultimamente le parole che, utilizzandole, abbiamo accettato. Cito a caso – lockdown, “distanza/distanziamento”, “sanificazione”, “fase 2”, le espressioni come “in sicurezza” o “l’Italia riparte”, per non parlare degli hashtag. Non che queste parole non designino alcunché; è ovvio infatti che esse si riferiscono a realtà vive e presenti che sono state e sono ancora intorno a noi. Ma il fatto che da tutti – media, politici, spot pubblicitari, gente comune – siano state utilizzate e ripetute fin da subito ha fatto sì che le cose che esse designano siano state subito ammesse e accolte senza riserve: insomma, non sono più le cose ad aver bisogno di un nome, ma i nomi a rendere necessarie le cose.


Lenny Bruce diceva spesso nei suoi spettacoli che è la repressione di una parola che le dà forza. Era negli anni Sessanta e il politically correct – o “cultura del piagnisteo”, come la chiamava Robert Hughes – era di là da venire. Ma non sbagliava: la ripetizione all’infinito di una parola, specie sui media, la disarma e la rende accettata, corrente. È un principio che la pubblicità ha compreso benissimo, ma anche la politica, che oggi vive di “narrazioni”, hashtag e tweet continuamente e pedissequamente ripetuti che rimbalzano dai notiziari alle piattaforme social.


Quello che voglio dire è che l’omologazione sociale – e l’appiattimento culturale che ne deriva - è anche una questione linguistica. Più si accettano i termini imposti dai media, più si legittima quello che essi designano. Non è una cosa da poco, anche se lo fanno da sempre: non a caso i regimi dittatoriali, sotto tutte le latitudini, esercitano un particolare controllo sui media. Perché questi non solo decidono l’agenda setting delle notizie e dei temi dell’informazione, ma, e in maniera più strisciante, anche il modo e i termini stessi in cui bisogna parlarne. Il dissenso, insomma, inizia da qui.



Alessandro Tempi

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