Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi è la surreale storia di Palmiro: un uomo apparentemente paranoico, ma in fondo come tanti, in balia delle sue strane vicende della vita. Il fato lo prenderà di mira più volte, su di lui si abbatteranno catastrofi che supereranno l’immaginazione più sfrenata, e proverà tutte le croci e le delizie dell’anima.
Una lente acuta, tagliente e ironica metterà a fuoco l’iprocrisia sempre più diffusa, l’inganno dei falsi valori, l’isolamento e la mercificazione dei sentimenti. Una lente che non risparmia nessuno.
(la casa editrice)
Nella consapevolezza di meritare un castigo
per questo delitto commesso con la piuma,
imputo la colpa
in parte a me stesso
perché l’ho premeditato da tempo,
in parte a mia madre Anastasia
perché mi ha procurato l’arma della creatività,
a mia moglie Isabel e a mia figlia Ingrid
perché mi hanno dato l’alibi di insistere,
a Laura che mi ha fornito il movente della
riflessione
e a Natascia, la editor, che ha nettato la scena del
crimine.
Alessandro Genovese
Incipit.
«Ho qualcosa che non va.» Con queste poche parole Palmiro Garcia Parra avrebbe espresso il malessere che lo sorprese nel letto alle prime luci dell’alba di quel 14 marzo. Ma per qualche oscuro motivo, il pensiero gli rimase incagliato nel complesso meccanismo della laringe e non si tradusse in sonorità vocale. Poteva darsi il caso, infatti, che questo Palmiro fosse un tipo equilibrato e razionale, uno di quelli che non perdono mai il controllo, che sanno sempre cosa dire, come dirlo e quando dirlo. Personaggi del genere, comunque, ne girano talmente pochi che trovarlo senza neanche girare l’angolo sarebbe parsa come una di quelle strane coincidenze a cui si fatica a credere.
Recensione di Baldassare Lobue
«Signore e signori va in scena la pochezza del materialismo moderno.»
Sulla scia dei grandi narratori, di quello che si può definire il “realismo magico”, quella di Alessandro Genovese è una gigantesca metafora, dove l’egoismo sociale fagocita sentimenti, moralità, pietà, umanità. Padrona assoluta delle giornate di Palmiro è la paura: della povertà; della malattia; della solitudine. La falsità di tutti i personaggi e l’effimera rincorsa verso una tranquillità economica, rendono questo castello di carte una sagace rappresentazione di cosa sia diventato oggi l’uomo. L’essere umano indossa una maschera e recita il ruolo che i burattinai hanno deciso. Cupo, a tratti surreale, il romanzo ha il sapore di una beffarda, illusoria rincorsa verso il nulla. La speranza che “possedere” possa appagare l’esistenza di Palmiro va in mille pezzi, come una sfera di Natale che, lanciata dalla cima di un palazzo, si frantuma sull’asfalto.
Un futuro distopico attende l’umanità? Un condominio di anime perdute, in una città che essa stessa perduta in un mondo senza solidarietà. Un condominio che è lo specchio di quel poco che resta.
Un insieme di anime solitarie, annidate in un formicaio senza speranza. Questa è la fotografia ultima di questo romanzo che mi resterà impressa nella memoria, una polaroid sbiadita e triste di un umanità alla deriva, dove l’ingordigia e la prevaricazione sugli altri sembra essere l’unica via di salvezza mors tua vita mea.
E allora la rincorsa a possedere le sfere più grandi, una sorta di album di figurine che non potrà mai completarsi definitivamente. Sfere che curano cosa? Il male di vivere.
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